Illegittima la discriminazione degli stranieri nella fruizione di prestazioni sociali regionali, ma se queste non attengono a diritti e bisogni fondamentali della persona non sono irragionevoli requisiti di anzianità di residenza sul territorio regionale Sentenza Corte Cost. n. 222 del 16/07/2013 sulla legislazione regionale del FVG. (v. allegato)
Con la sentenza n. 222 depositata il 16 luglio scorso, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, dell’art. 8 comma 2 e dell’art. 9 della legge regionale del FVG 30 novembre 2011, n. 16 per contrasto con l’art. 3 della Costituzione (principio costituzionale di uguaglianza), ma ha dichiarato nel contempo non fondate le questioni di legittimità costituzionale poste dal ricorso della Presidenza del Consiglio dei Ministri nei confronti degli articoli 3, 5, 6 comma 1, e 7 della medesima legge regionale. La Corte Costituzionale ha innanzitutto dichiarato incostituzionale la disparità di trattamento introdotta nella normativa regionale del FVG per cui per i cittadini di Paesi terzi non membri dell’UE residenti nel FVG non lungo soggiornanti, nè rifugiati o titolari della protezione sussidiaria, veniva previsto un requisito aggiuntivo di anzianità di residenza di cinque anni nel territorio nazionale al fine della fruizione di prestazioni di welfare relative al contrasto alla povertà, al sostegno del reddito familiare e al diritto sociale all’abitazione, mentre per i cittadini italiani e di altri Paesi membri UE e loro familiari, nonchè per lungosoggiornanti e rifugiati, veniva previsto unicamente un requisito di anzianità di residenza biennale sul territorio regionale.
Al riguardo, il giudice delle leggi afferma l’illegittimità della disparità di trattamento in quanto la distinzione fondata sulla cittadinanza e sull’ anzianità di residenza sul territorio nazionale non ha una correlazione logica con le finalità degli istituti di protezione sociale, rivolte a porre rimedio alle situazioni di bisogno e di disagio riferimenti alla persona in quanto tale, con questo rivelandosi criteri arbitrari ed intrinsecamente discriminatori. Ugualmente, nel giudizio della Corte, il nesso sufficiente tra il cittadino straniero e la comunità ove risiede, appare assicurato già dalla titolarità di un permesso di soggiorno della durata di almeno un anno, previsto dall’art. 41 del T.U. immigrazione, quale condizione per esercitare il diritto alla parità di trattamento in materia di fruizione delle prestazioni di assistenza sociale. La Corte costituzionale, qui, implicitamente sembra offrire un criterio interpretativo dell’art. 41 T.U. diverso da quello strettamente letterale, per cui la norma non esigerebbe un permesso di soggiorno della durata di almeno un anno, riconducibile, nelle attuali norme sull’immigrazione, allo svolgimento di un’attività lavorativa con contratto a tempo indeterminato o determinato della durata almeno annuale, ovvero ad uno stato di disoccupazione consentito dall’art. 22 c. 11 del d.lgs. n. 286/98, ma identificherebbe una soglia minima di pregressa durata legale della permanenza in Italia. In tale modo, la Corte sembra schivare possibili rilievi di illegittimità costituzionale della previsione normativa, che se interpretata letteralmente, potrebbe condurre a situazioni di manifesta irragionevolezza, rendendolo non idonea a riflettere quel criterio di sufficiente radicamento e nesso con la comunità nazionale, identificato dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza n. 306/2008. Pensiamo ad esempio al caso di un cittadino di Paese terzo appena entrato in Italia con un contratto a tempo determinato della durata di un anno, che quindi potrebbe vantare il principio di parità di trattamento di cui all’art. 41 del T.U., negato invece ad un cittadino straniero che, sebbene già presente in Italia da diversi anni, potrebbe trovarsi temporaneamente occupato con un contratto a tempo determinato della durata di soli sei mesi, e conseguentemente essere in possesso di un permesso di soggiorno di pari durata. Sotto il profilo del radicamento e nesso con la società nazionale, sarebbe difficile da sostenere che il primo presenti migliori standard rispetto al secondo.
Il passaggio della sentenza della Corte Costituzionale, pertanto, dovrebbe spingere ulteriormente il legislatore a porre mano con urgenza alla delicata questione del coordinamento tra l’art. 41 del T.U. immigrazione e le norme in materia di durata dei permessi di soggiorno, che ha perso di razionalità e coerenza dopo le note modifiche introdotte dalla legge “Bossi-Fini” che ha eccessivamente legato la durata del permesso di soggiorno alla durata del contratto di lavoro.
L’occasione potrebbe offerta dalla normativa di attuazione della direttiva europea n. 2011/98 i cui termini scadono il prossimo 25 dicembre 2013. Tale direttiva, infatti, estende anche ai lavoratori di Paesi terzi che soggiornano in uno Stato membro a fini lavorativi il principio di parità di trattamento nei settori della sicurezza sociale definiti dal regolamento (CE) n. 883/2004, che comprende anche le ‘prestazioni familiari’ volte cioè a sostenere i carichi familiari, nonchè le prestazioni di assistenza sociale c.d. “miste”, ovvero assistenziali in quanto non finanziate da contributi previdenziali individuali, ma che costituiscono diritti soggettivi ai sensi della legislazione vigente.
Riguardo alla valutazione della legittimità o meno del criterio dell’anzianità di residenza nel territorio regionale, quale condizione di accesso alle prestazioni sociali regionali, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 222/2013, fonda un’ambigua distinzione tra prestazioni finalizzate intrinsecamente al soddisfacimento dei bisogni della persona - che non ammettono distinzioni all’interno del ‘corpus’ dei residenti - e prestazioni sociali che sarebbero invece destinate al sostegno dei membri della comunità regionale e per le quali possono invece legittimarsi distinzioni volte a favorire coloro che hanno operato nella comunità regionale per almeno un ragionevole lasso di tempo. Di conseguenza, i giudici costituzionali hanno dichiarato illegittimo il requisito di anzianità di residenza biennale sul territorio regionale con riguardo alle prestazioni sociali riservate ai ‘casi di indigenza’, per l’evidente correlazione con il soddisfacimento di bisogni primari dell’individuo in quanto tale, così come hanno dichiarato illegittimo il medesimo requisito con riferimento a prestazioni collegate al ‘diritto allo studio’, avente per sua natura intrinseca una portata ‘universalistica’, in quanto legato ad un diritto umano fondamentale, e come tale spettante a tutti. Al contrario, il giudice costituzionale ha ritenuto non irragionevole il medesimo requisito di residenza riferito a prestazioni sociali volte a sostenere la famiglia, se eccedenti i livelli essenziali che identificherebbero il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona, in quanto –seguendo le parole della Corte- in questi casi le prestazioni non verrebbero incontro ad un bisogno primario dell’individuo, che non tollera distinzioni correlate al radicamento territoriale, ma premierebbero il contributo offerto dalla famiglia, quale formazione sociale, al progresso morale e materiale della comunità costruita su base regionale.
La distinzione operata dalla Corte appare assai discutibile in quanto la funzione di istituti quali un ‘assegno di natalità’ ovvero una ‘carta famiglia’ per il sostegno ai nuclei familiari a basso reddito con figli minori a carico, appaiono obiettivamente legati a finalità sociali di supporto dei carichi familiari e delle funzioni genitoriali, e dunque di redistribuzione del reddito, nonchè a garantire un migliore benessere dei minori, funzioni e finalità per loro natura universali. Inoltre, compito primario del welfare dovrebbe essere innanzitutto quello di assicurare una migliore inclusione sociale ed una più equa redistribuzione del reddito funzionale ad una politica di pari opportunità e coesione sociale, e non quello di premiare il radicamento della famiglia sul territorio come valore in sè. Ugualmente, non si vede regione logica sufficientemente fondata per ritenere aprioristicamente come l’asserita funzione del contributo offerto dalla famiglia al progresso morale e materiale della comunità costituita su base regionale, verrebbe meglio assicurata da nuclei familiari già da tempo apprezzabile residenti sul territorio regionale piuttosto che da nuclei familiari neo residenti, per cui –per usare le parole della Corte – solo i primi risulterebbero “parti vitali della comunità”. Se un nucleo familiare od un individuo, per ragioni di lavoro e/o di servizio, deve spostarsi frequentemente da una regione all’altra, così come anche sempre più spesso richiedono le ragioni della moderna economia, solo per questo fatto questo nucleo familiare o questa persona perde lo status di ‘parte vitale della comunità” e dunque non diviene meritevole allo stesso livello di politiche di welfare e sostegno al reddito dei soggetti con maggiore stanzialità?
Appare inoltre di dubbia compatibilità tale conclusione della Corte Costituzionale con i principi e le politiche dell’Unione europea volte invece ad incoraggiare la libera circolazione dei lavoratori e l’integrazione dei mercati del lavoro soprattutto nelle regioni di confine tra Stati membri, come il FVG appunto. Come più volte sostenuto dalla Corte di Giustizia europea (da ultimo la sentenza del 20 giugno 2013, causa C-20/2012), anche la previsione di un mero requisito di residenza ai fini dell’accesso a prestazioni sociali, costituisce una evidente discriminazione vietata dal diritto dell’Unione europea nei confronti dei lavoratori frontalieri. Per i giudici di Lussemburgo, infatti, l’esercizio di attività lavorativa nel Paese membro e, conseguentemente, il contributo alle politiche sociali di detto Stato, costituisce per il lavoratore dell'Unione, incluso quello frontaliero, un nesso di per sè sufficiente con la comunità sociale di detto Stato per rivendicare il principio di parità di trattamento ed il divieto di discriminazioni, anche indirette, in quanto fondate sul criterio della reasidenza e/o dell'anzianità di residenza.
Anche la giustificazione addotta dalla Corte Costituzionale per sostenere la legittimità del requisito di anzianità di residenza biennale nel territorio regionale con riguardo alle prestazioni sociali legate al soddisfacimento del bisogno abitativo, non appare convincente. Secondo la Corte – “l’accesso ad un bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, si colloca a conclusione del percorso di integrazione della persona presso la comunità locale e, per altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia”. Se il ragionamento della Corte, centrato su un nesso di possibile – ma non dimostrata - correlazione tra sufficiente radicamento territoriale del beneficiario e maggiore razionalità dell’azione amministrativa, può avere qualche fondamento con riferimento a quegli interventi incidenti nel diritto sociale all’abitazione aventi un carattere di lunga durata, quali le assegnazioni di alloggi in edilizia residenziale pubblica ovvero l’accesso al credito agevolato, diverso invece appare il discorso in relazione al fondo per il sostegno alle locazioni. Quest'ultimo, infatti, svolge invece proprio una funzione immediata di supporto all’inclusione sociale attraverso l’aiuto all’inserimento del soggetto debole nel mercato delle locazioni private. Peraltro, in questo caso, il rischio di dispersione delle risorse a favore di soggetti che non siano dotati di un livello sufficiente di stabilità appare già fugato dal fatto che il contributo viene assegnato ex–post in relazione alle spese sostenute per la locazione abitativa nell’anno precedente a quello di emissione del bando. La ratio e funzione sociale della prestazione sociale denominata “contributo affitto”, pertanto, avrebbe meritato un trattamento ed un giudizio diverso sulla compatibilità del requisito di anzianità di residenza sul territorio regionale rispetto ai principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, rispetto agli altri istituti considerati come aventi un carattere ‘duraturo’ nel tempo. Sotto questo punto di vista, appare maggiormente rigorosa l’ analisi compiuta dal giudice amministrativo della Lombardia, con la sentenza n. 5988/2010. Questi, infatti, pur ritenendondo compatibile con i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza e con i principi di libera circolazione e di non discriminazione di cui al diritto UE, la norma della Regione Lombardia che prescrive, ai fini dell’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, il requisito della residenza o dello svolgimento di attività lavorativa in Regione da almeno cinque anni, pur sempre aveva affermato che il medesimo ragionamento non poteva valere per il ‘contributo affitti’ ed istituti affini, che sebbene ugualmente inerenti al diritto sociale all’abitazione, hanno caratteristiche, ratio e finalità diverse da doverli rendere accessibili a tutti, senza distinguo correlati al diverso radicamento territoriale.
La sentenza della Corte Costituzionale appare dunque aprire alcune problematiche meritevoli di ulteriori e più approfondite riflessioni sui rischi di una sempre maggiore diffusione di un welfare locale e regionale sempre più arroccato su logiche ‘municipalistiche’ piuttosto che orientato ad esigenze ed obiettivi di effettiva inclusione e coesione sociale.
commento a cura di Walter Citti, servizio antidiscriminazioni ASGI. fonte: ASGI